Il PUNTO DI VISTA

Medici e informatici: dialogo (im)possibile?



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Ogni attività umana ha il suo gergo. Più o meno incomprensibile per chi non appartiene al giusto gruppo professionale. La Medicina e l’Informatica non fanno eccezione, ma ingegneri e dottori devono parlare, e soprattutto capirsi. Ecco qualche suggerimento tratto dall’esperienza sul campo

Pubblicato il 1 lug 2024

Paolo Campigli

CIO Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi (Firenze)



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Era il lontano 1997: “Ingegnere, allora facciamo una riséga?”.
Così, su due piedi, avrei voluto rispondere: “Riséga lo dirai a qualcun altro!”, ma invece sorrisi e risposi di sì. E feci bene, perché quel palo di una linea a media tensione che si era inclinato pericolosamente sulla strada statale aveva proprio bisogno di un intervento sul basamento, di uno scalino per migliorare la tenuta del blocco di cemento sul terreno. Una riséga, appunto.

Gli informatici (visti dai medici) “parlano strano”

L’Ingegneria Civile ha una grande quantità di termini gergali o semplicemente appartenenti strettamente al settore, ma anche l’ambito marinaresco non fa difetto (il “mezzo marinaio” di fantozziana memoria, per dire) così come i termini di Architettura e Storia dell’arte (alzi la mano chi conosce tutte le parti di una chiesa: navata, transetto, abside, e poi?).

In ambito medico, se dico che gli informatici “parlano strano” dico un’ovvietà.
Una delle critiche che riceviamo più spesso, infatti, è proprio quella di non farci capire dai comuni mortali (“C’è stato un overflow sulla RAM, e la memoria swap non ha la banda sufficiente…”, “Sì, e quindi?”, “Devi buttare via il computer”).
La questione è resa più complicata dal fatto che il 99% dei termini informatici sono inglesi, e cercare di tradurli come è stato fatto in Francia (dove non si dice software bensì logiciel, ad esempio) è un’impresa quasi impossibile. Ho provato per anni a dire calcolatore o elaboratore, ma davanti agli sguardi smarriti dell’interlocutore ho sempre dovuto ripiegare su: “Sì, insomma, il computer”.

L’invito al “parlar semplice” di Winston Churchill

Un insospettabile personaggio si spese negli anni ‘40 del Novecento per migliorare la comprensibilità del parlato: Winston Churchill. In un celebre (ma non troppo) comunicato al gabinetto di guerra britannico (si veda la figura di seguito), egli pose in maniera chiara e sintetica le norme da seguire.

L’importanza di questo breve documento sta anche nella situazione storica in cui fu partorito: la Gran Bretagna era in guerra contro i Nazisti da circa un anno e le cose non stavano andando proprio per il meglio; in più, il 10 giugno del 1940 anche l’Italia era scesa in campo contro Francia e Gran Bretagna. Eppure, il Primo Ministro ritenne importante scrivere questa breve nota che, in qualche modo, è passata alla storia.

Se a questo aggiungiamo il celebre attacco condotto negli anni seguenti dal gruppo di tecnici guidati da Alan Turing alle macchine crittografiche Enigma, sulle quali era basata la comunicazione cifrata usata dall’esercito nazista, vediamo come la comunicazione sia fondamentale anche per vincere le guerre, oltre che – più modestamente – per lavorare meglio.

Churchill, oltre a raccomandare la sintesi (“Brevity” è il titolo del suo memorandum) e l’uso degli allegati, raccomanda di evitare lo officialese jargon, che noi potremmo definire il “burocratese”, ed invitava ad usare frasi brevi ed espressive anche se colloquiali.

E’ un po’ un invito a “parlare come si mangia”, insomma.

Mettersi sempre nei panni di chi ascolta

Il primo consiglio che mi sento di dare è adeguare il vocabolario all’ascoltatore.
Se sto spiegando il funzionamento di un computer a degli alunni delle elementari, userò termini ed espressioni diverse rispetto a quelle di un convegno accademico. E quindi: perché dire “iperpiressia” quando si può dire “febbre” ed essere capiti da tutti? Perché parlare di “external storage” quando con “spazio disco” si dice più o meno la stessa cosa in maniera assai più comprensibile?

E ancora: cercare di capire preliminarmente con chi abbiamo a che fare.

Un episodio che mi fu raccontato molti anni fa da un formatore professionista mi ritorna spesso alla mente: in un Comune piemontese era stato organizzato un seminario per i dipendenti sull’organizzazione dell’Ente. Durante l’intervallo, il formatore si accorge di una signora che era rimasta a sedere in aula – mentre tutti erano a prendere il caffè – e che stava piangendo di nascosto. Le va a chiedere cosa stesse succedendo, e lei risponde che non sta capendo niente delle slide che venivano presentate. Il docente le dice che non importa, basta che abbia un’idea di massima dei concetti espressi, e che non c’erano esami da superare. La signora si asciuga gli occhi e dice: “Vede, dottore, io non so leggere”.

In questo caso, la responsabilità di questa inutile umiliazione non era certo del docente, quanto del responsabile gerarchico della signora, che era stata inserita in un programma formativo nonostante l’evidente impedimento. Ma anche qui si è verificato un disallineamento del linguaggio fra chi parla e chi ascolta, che avrebbe dovuto essere evitato (“asimmetria informativa”, direbbe qualcuno).

In sostanza, lo sforzo per chi parla è quello di mettersi nei panni di chi ascolta, anche a costo di qualche imprecisione e di limitazione al programma da svolgere o ai concetti da esprimere.

Comunicazione tra medici e informatici: un vocabolario di base condiviso

Certo è che, soprattutto nel mondo del lavoro, un minimo di sforzo è richiesto anche all’ascoltatore: una formazione di base è imprescindibile se si vuole instaurare un colloquio. Nel caso informatici-medici, questo si trasforma soprattutto nella presa di coscienza di un vocabolario di base senza il quale la comunicazione diventa davvero difficile: anamnesi, prognosi, elettiva, tonsillectomia, ma anche hardware, software, cavo di rete, disco esterno, devono far parte di un bagaglio di termini comprensibili e condivisi.
Vi assicuro che è un po’ frustrante sentirsi chiamare da qualcuno che dice “la scatola non si accende”, o “voglio un processore da 500 Gigabytes”.

Non fare sfoggio di cultura o, peggio ancora, scegliere di non farsi capire

Un altro punto importante: è sempre bene non fare sfoggio di cultura. Molti anni fa, ai miei primi giorni in ENEL, mi trovai a colloquio con un tecnico che, al telefono, parlava di conduttori, pali, isolatori e ripeteva più volte: “allora fai la RAM”.
Forte dei miei recenti studi in qualità e affidabilità, non appena riattaccò gli dissi: “Ah, RAM, cioè Reliability, Availability, Maintenaibility?”. Mi guardò strano e disse: “No, RAM: Richiesta Acquisto Materiali”, lasciandomi col viso rosso.

E quando, uscendo da un corso, si sente il commento “È tanto bravo il Professore, non ho capito nulla”, lasciatemi dire che proprio bravo il Professore non deve esserlo.

Talvolta, la scelta di non farsi capire è deliberata: ricordate il romanzo Fontamara?
Agli abitanti di un paesino del Meridione d’Italia viene sottratta l’acqua del ruscello, che serve per irrigare le terre di un notabile locale. Il sindaco li tranquillizza dicendo loro che l’acqua sarà deviata solo per “dieci lustri”, al che i paesani sono interdetti ma si calmano fidandosi del Sindaco. Non capiranno mai che per cinquant’anni sono destinati a restare senz’acqua. In quel caso, la parola “lustro”, italianissima ma desueta, viene usata per ingannare gli interlocutori.

E qui si ritorna all’officialese jargon di Winston Churchill: usare termini con una flat surface tipo ottimizzazione, revisione, reingegnerizzazione, monitoraggio, che senza maggiori dettagli non significano assolutamente niente. Sono come i “lustri” di Fontamara.

Gergo medico: termini affascinanti, ma spesso incomprensibili dai neofiti

Torniamo al gergo medico. Non soltanto i termini medici/biologici sono sconosciuti ai più, ma talvolta si aggiungono alla conversazione dei sostantivi gergali che mettono davvero in difficoltà chi non appartiene alla ristretta cerchia. Ed il fatto che mette più in difficoltà l’interlocutore è l’assoluta naturalezza con la quale vengono utilizzati.

In una riunione, ai miei primi tempi di ospedale, rimasi colpito da alcuni termini per certi versi affascinanti: “in quella sala operatoria metteremo il biplano”, cosa che mi fece pensare immediatamente al Barone Rosso ed al suo aereo da guerra (in realtà, è un particolare tavolo operatorio che offre la possibilità di effettuare esami angiografici, dopo qualche anno l’ho imparato anch’io!). Oppure “la sala operatoria numero 13 è tempo dipendente”, e lì immaginai un gigantesco cronometro a scandire i tempi dell’intervento chirurgico.

Qui, forse, sarebbe necessario un prontuario ad uso dei neofiti, nel quale vengano spiegati i principali termini tipici dell’ambiente. Ma mi rendo conto che sarebbe un’impresa molto impegnativa.

Evitiamo termini ed espressioni alla moda

Infine, un invito: cerchiamo di evitare termini ed espressioni alla moda, di scarso significato o fuori contesto. Mi riferisco ai vari resiliente, cloud, epocale… ed alle espressioni nate chissà dove, tipo “mettere a terra i progetti” (in elettrotecnica mettere a terra significa tutt’altra cosa). Adesso è l’Intelligenza Artificiale a farla da padrona: viene citata alternativamente come panacea di tutti i mali o come mostro da sconfiggere. Ho letto perfino che i nuovi cassonetti che verranno installati nella mia città la avranno a bordo. Per fare cosa, francamente, mi sfugge.

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