Nei giorni scorsi, ha avuto molta risonanza mediatica l’annuncio circa la imminente apertura di quello che dovrebbe essere il primo ospedale virtuale italiano, realizzato prendendo a riferimento l’ormai famoso Mercy Virtual Hospital di Chesterfield (del quale chi scrive ha parlato per la prima volta cinque anni fa nel suo libro “Corpi Connessi”, ndr.).
Un consorzio privato che sarà costituito ad-hoc ristrutturerà una struttura esistente, realizzando – su una superficie di circa 1.000 metri quadrati – una vera e propria centrale operativa dentro la quale opereranno medici e infermieri che offriranno prestazioni (a pagamento) a pazienti cronici collegati da casa attraverso videochiamate, chat, e-mail e App.
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Ospedale virtuale: il modello di business in Italia e altrove
Questo consorzio ha in mente di aprirne altri due, di ospedali virtuali: uno a Como e uno a Cosenza.
Ancora non è dato sapere chi saranno le imprese coinvolte nel consorzio, ma – stando agli annunci ufficiali – dovrebbero essere strutture sanitarie private già operanti in Italia.
Il modello di business previsto si regge sulle (ancora tutte da ottenere) convenzioni col SSN: in pratica, il paziente curato dall’ospedale virtuale non paga nulla (salvo il ticket, se dovuto) e ottiene prestazioni la cui richiesta viene effettuata da medici afferenti al Servizio Sanitario Nazionale.
E qui potrebbe nascere un problema: trattandosi di prescrizioni riconducibili alla Telemedicina, non è chiaro in che modo una struttura sanitaria pubblica che disporrà della Infrastruttura Regionale di Telemedicina realizzata con fondi PNRR (260 milioni di euro) dovrebbe utilizzare una piattaforma terza, presumibilmente non integrata col FSE e con i sistemi informativi delle varie ASL.
Il problema di molti “emuli” del Mercy Virtual è che si basano su modelli di business decisamente differenti dall’originale. Il progetto di Chesterfield, infatti, afferisce a un modello di network fra tutti gli ospedali Mercy americani, ciascuno dei quali è un utente (pagante) delle prestazioni erogate dal Virtual.
In effetti, il principale punto di forza degli ospedali virtuali (non solo Mercy: ce ne sono altri fra Giappone e Corea) è rappresentato dal loro business model orientato a clienti paganti (regime privatistico puro) o all’erogazione di prestazioni per conto di altri ospedali privati, tipicamente riferite alla cura di pazienti post-acuti appena dimessi ma ancora necessitanti di cure, oppure alla copertura da remoto di turni notturni in terapia intensiva.
Ospedale virtuale e AI: l’esempio dell’Agent Hospital di Pechino
Un’interessantissima iniziativa di ospedale virtuale in regime di totale sanità pubblica è quella dell’Agent Hospital di Pechino (struttura in avanzata fase realizzativa, diventerà operativa all’inizio del 2025), dove verranno seguiti 10 milioni di pazienti. Qui, la vera novità è l’utilizzo intensivo dell’Intelligenza Artificiale (motore sviluppato da un’università pechinese a partire da GPT 3.5), che consente addirittura (in casi specifici e governati da protocolli certificati) di utilizzare medici virtuali per curare pazienti reali.
Ospedali (e reparti) virtuali: esempi e stato dell’arte in Italia
Oltre all’annuncio del virtual hospital viareggino, qual è la situazione in Italia?
Il primo (e già funzionante) ospedale virtuale italiano è nato nell’aprile del 2023 a Roma, con un progetto fortemente voluto dall’ASL Roma 2: negli ospedali Sandro Pertini e Sant’Eugenio, i pazienti dimessi e ancora bisognosi di cure vengono seguiti da remoto in regime di degenza virtuale (deospedalizzazione domiciliare). Volendo essere pignoli, più che “ospedali virtuali” questi sono “reparti virtuali”. Per la precisione, le 9 Unità Operative coinvolte nel progetto hanno la capacità di gestire 80 posti letto virtuali.
I primi risultati, dopo un anno di esercizio, sono più che interessanti:
- riduzione di oltre il 10% degli accessi in Pronto Soccorso da parte di pazienti dimessi di recente;
- diminuzione del 10% dei “re-ricoveri”;
- riduzione del numero di giornate di degenza media.
Reparto virtuale: un modello che piace agli ospedali pubblici
Il modello di “reparto virtuale” sta raccogliendo moltissimo interesse in parecchie strutture ospedaliere pubbliche, in quanto è perfettamente adattabile al contesto generale, oltre ad essere uno dei principali strumenti capaci di ridurre significativamente gli accessi in PS post-dimissione e i re-ricoveri.
Naturalmente, il solo reparto virtuale non basta: l’ospedalizzazione domiciliare ha quasi sempre bisogno di prestazioni non effettuabili in modalità remota, e da qui la necessità di integrare i processi di telemedicina con le strutture (tipicamente, convenzionate) che offrono prestazioni infermieristiche, riabilitative e sociosanitarie a domicilio, e con i sistemi informativi ospedalieri.
Stando ai “rumors” carpiti nei vari convegni estivi, non meno di una ventina di ospedali pubblici italiani hanno in mente di aprire reparti virtuali entro i prossimi 24 mesi.
La previsione: ospedale virtuale o reparto virtuale?
Lasciatemi fare una previsione: gli ospedali virtuali “modello Mercy”, in Italia, sono destinati ad avere successo solamente se facenti parte di un disegno complessivo da parte di uno o più grandi gruppi di Sanità privata.
Operare in regime di convenzione non sarà facile, se non a patto di rinunciare ad una “propria” piattaforma tecnologica, adottando (a pagamento) quelle realizzate dalle varie Regioni con fondi PNRR.
Per parte mia, i miei “two cents” li metto sul modello di reparto virtuale.