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TAT (Turn-Around Time) nei laboratori clinici: le misure sono importanti



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Cosa hanno in comune una sonda diretta verso Marte, una gara di salto in lungo ed una provetta di laboratorio? Che in tutte e tre le situazioni, la misurazione dei tempi, degli spazi, delle grandezze in generale, ha una grande importanza. E non solo per l’accuratezza dei cronometri

Pubblicato il 5 giu 2024

Paolo Campigli

CIO Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi (Firenze)



TAT-Turn-Around-Time-laboratorio-ospedale

Il nome Arthur Bloch, probabilmente, non vi dirà molto. Ma se dico “Legge di Murphy”, probabilmente tutti annuirete facendo un mezzo sorriso.
Bloch è, infatti, l’autore statunitense di vari testi riguardanti la celebre Legge, a partire dal celebre “Murphy’s Law, and Other Reasons Why Things Go Wrong!” del 1988.

Fra le centinaia di frasi ispirate alla Legge, a partire dalla principale, ossia “se una cosa può andar male lo farà”, ce n’è una sulla quale ci si può fermare a riflettere un attimo:

“La lunghezza di un minuto dipende dal lato della porta del bagno da cui ti trovi”. E questa battuta fa sorridere, ma invita anche a qualche approfondimento.

L’importanza del modo in cui misuriamo le prestazioni

Quante volte ci siamo trovati a dire che un servizio era decisamente scadente quando il fornitore ci mostrava dati decisamente positivi su quanto offerto?
Questo può far parte del classico delta tra qualità offerta e qualità percepita, ma talvolta c’è qualcosa di più. Di più semplice, banale direi: il modo di misurare le prestazioni.
La carbonara che tarda ad arrivare in tavola può essere vissuta come un fastidio da parte del cliente, ma anche come un pregio per via della cottura “espressa” della pasta. Anche se il quarto d’ora di attesa, per chi ha fame, può sembrare davvero lungo da trascorrere.

I tempi – e, in generale, le misure delle grandezze fisiche – sono soggettivi, anche quando sono misurati elettronicamente e senza possibilità di errore metrico.

Avete mai pensato al cartello “Torno subito” che molti negozianti appendono alla porta quando lasciano il posto per qualche minuto?
Quel tempo può variare da due minuti a mezz’ora, e se stiamo aspettando per acquistare qualcosa che per noi è importante ed urgente, il “subito” appare come una presa in giro.
Per il negoziante, che magari è andato di corsa a pagare un bollettino, mezz’ora sembra il minimo indispensabile. Stesso tempo, percezioni completamente diverse.

E ancora: “il mio computer è lento”. Lento rispetto a cosa? È meno performante di quello del collega? O forse stai lavorando con tabelle di milioni di righe che lo “impallano” e, quindi, fa quel che può?

Il caso emblematico del Mars Climate Orbiter

Talvolta è proprio una questione di standard sbagliati o non condivisi, e in questo campo, a volte, anche i grandi commettono errori: una sonda NASA destinata a giungere su Marte non riuscì nell’intento a causa di un errore di misura, o per meglio dire di “unità” di misura.

Era il 1999: la sonda Mars Climate Orbiter aveva completato il suo volo verso il Pianeta Rosso senza particolari problemi. Dopo dieci mesi stava per atterrare (o “ammartare”: come si dice?) a destinazione. Ma proprio in vista del traguardo, la sonda non frena in tempo e si schianta a grande velocità sulla superficie, non senza prima essersi bruciacchiata nell’atmosfera.

Cosa era successo?

Un qualcosa, visto col senno di poi, incredibile: i dati rilevati di forza applicata al veicolo, e quindi di accelerazione, erano codificati in libbre-forza, secondo il sistema di misura imperiale usato negli Stati Uniti, mentre i circuiti di calcolo della sonda li interpretarono come dati espressi in newton, secondo il Sistema Internazionale adottato nel resto del mondo.

Risultato: un arrosto di metallo, silicio e ed altri materiali e la Mars Climate Orbiter ci salutò ad oltre 200 milioni di chilometri dalla Terra. E, con lei, gli oltre 125 milioni di dollari del progetto.

È quindi fondamentale mettersi d’accordo sulle unità di misura da usare, privilegiando valori quantitativi a valori qualitativi (tipo “un buon tempo di risposta”, “un’ottima affidabilità”, “accettabile rispetto delle specifiche”).

Si potrebbe obiettare che in Europa non ci sono dubbi sull’utilizzo del Sistema Internazionale. Vero, ma quante volte abbiamo sentito frasi del tipo “il condizionatore consuma un chilowatt”, “voglio un processore da 2 gigabyte”, “la nave viaggia a 10 nodi/ora” (e quest’ultimo esempio, oltre che errato, non è neanche standard).

Il caso Evangelisti (e come farne tesoro)

Ma torniamo sulla Terra. Anno 1987, Stadio Olimpico di Roma, Campionati Mondiali di Atletica. Salta in lungo il nostro Giovanni Evangelisti, che aveva vinto il bronzo olimpico tre anni prima. È un salto discreto, sembrano otto metri scarsi. Il tabellone mostra, dopo alcuni secondi, l’ottima misura di 8,38 metri, che vale a Giovanni il terzo posto. Ma Evangelisti non esulta per un risultato di così alto livello.

Come mai? Perché si è accorto – da atleta esperto qual è – che il suo salto valeva molto meno (7,90 metri circa, si scoprirà poi) ed un giudice aveva spostato il prisma ottico che serve per le rilevazioni delle distanze e calpestato per bene la sabbia in modo da cancellare il punto di atterraggio effettivo. Evangelisti, che alla fine fu più vittima che fruitore del trucco, sarà costretto a restituire la medaglia al quarto classificato.

Quale lezione trarne? Occhio alle rilevazioni errate, nel senso di alterate rispetto alla realtà dei fatti. E attenzione anche alle misure che provengono da somme di operazioni con accuratezza diversa. Il pericolo è di ritrovarsi come nella barzellettina degli indiani e cowboys:

un giovane tenente dell’esercito americano viene inviato nella notte a osservare quanti pellirossa sono nel villaggio che intendono attaccare. Il tenente ritorna la mattina dopo e riferisce al comandante:

  • Allora, quanti nemici ci sono nel villaggio?
  • 1007, risponde sicuro il giovane
  • Ma, tenente, come fa a essere così preciso?
  • Facile: 4 davanti alla tenda di sinistra; 3 davanti alla tenda di destra. E in mezzo c’era un gran macello, saranno stati mille!

Il TAT (Turn-Around Time) in ambiente ospedaliero

E veniamo alle questioni che ci riguardano più da vicino, ossia all’ambiente ospedaliero.

Qualche tempo fa, ho calcolato i TAT (Turn-Around Time) relativi a vari esami ematici effettuati presso il Laboratorio Generale di Careggi (disclaimer: l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Careggi è il mio luogo di lavoro).

È importante intendersi sul significato dei termini: quando si parla di tempi di esecuzione di un’attività, tipicamente in ambiente laboratoristico, il “TAT” viene citato spesso.

TAT sta per “Turn-Around Time”, ma cosa significa?

I “sacri testi” parlano di “quantità di tempo necessaria per completare un processo”.

Chiaro, no? Eh, non tanto. Perché il “processo” può avere significati diversi a seconda da che angolatura lo osserviamo, e questo può anche essere fonte di discussione.

Da qualche statistica da me elaborata sui tempi di esecuzione di un esame tipico dei casi in urgenza richiesti dal Pronto Soccorso (troponina, biomarcatore dell’infarto cardiaco acuto) avevo stimato un valore del tempo di risposta molto superiore a quello che risultava al laboratorio stesso. Avevamo in entrambi i casi calcolato il cosiddetto 90° percentile, ovvero il tempo sotto al quale vengono completati il 90% degli esami. Non è infatti sufficiente stimare il tempo medio, in quanto ci possono essere degli outlier che si pongono molto al di sotto o al di sopra di tale media: i valori migliori non sono ovviamente un problema, quelli molto al di sopra possono esserlo, soprattutto in esami ematici effettuati in emergenza.

Pareva d’essere in una situazione tipo la famosa vignetta, mostrata di seguito, della cifra 6 che può sembrare un 9 e viceversa.

numero 6 oppure numero 9? il dubbio

 

Dopo aver lavorato un bel po’ sulle tabelle, utilizzando dati riferiti a periodi diversi, ad orari diversi (il carico di lavoro del laboratorio diminuisce nella notte e, conseguentemente, ci si può aspettare un miglioramento dei TAT), senza arrivare a risultati significativi, mi decisi a chiedere alla collega responsabile del laboratorio un dettaglio che, probabilmente, dovevo chiarire subito:

“Ma tu, cosa consideri come TAT?”.

E lei: “Per noi, in laboratorio, il TAT è il tempo che intercorre fra la lettura del barcode della provetta all’inizio della fase preanalitica, cioè all’ingresso nella catena, e la firma digitale del referto che contiene il valore dell’analita misurato”.

Bingo! Io stavo in realtà misurando tutta un’altra cosa. Il mio istante di inizio era rappresentato dal prelievo di sangue da parte dell’infermiere del Pronto Soccorso, o meglio, dall’inserimento della richiesta di quell’esame nel sistema informatico, e il processo si concludeva, nella mia modellazione, con la visualizzazione del risultato da parte del medico di Pronto Soccorso.

È ovvio che queste due misurazioni – entrambe sensate secondo i rispettivi punti di vista – possono essere anche molto diverse, perché comprendono parti del processo diversamente articolate.

E, come i due personaggi che discutono fra 6 e 9, non ci sono molte possibilità di accordo: probabilmente, l’unica cosa da fare per soddisfare entrambi è procedere ad un’ottimizzazione del sistema che comprenda il processo nella sua interezza.

Del resto, come diceva un mio compagno all’Università, “i tempi vanno considerati end-to-end: non ha senso avere un treno ad alta velocità che fa risparmiare un quarto d’ora fra Firenze e Roma se poi devo perdere venti minuti alla biglietteria”.

Si parla di molti anni fa, non c’era Internet e non c’erano i chioschi per acquistare i biglietti da soli. Ma il concetto di base è sempre valido.

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